Giuseppe Russo
Ricercatore presso il Consorzio di Ricerca Gian Pietro Ballatore

Le politiche europee hanno costruito nel corso degli anni una trama culturale e sociale che attraversa le nostre vite e che, grazie alla definizione di norme, valori e identità, influenza il nostro modo di vivere e, nostro malgrado, il nostro futuro.

Questa realtà, che appartiene a circa 740 milioni di individui, vede nel settore agricolo e agroalimentare uno degli scenari più importanti nel quale il decisore politico ha definito specifici strumenti normativi per tutelare l’identità ed il valore delle produzioni agroalimentari. Tra questi strumenti rientrano i Regg. CE n. 2081/1992 e n. 1151/2012, nell’ambito dei quali sono istituiti i marchi DOP, IGP ed STG, che certificano il legame e l’identità di alcune produzioni con uno specifico territorio.

L’Italia, con un totale di 293 prodotti, è tra i paesi europei quello che vanta il maggior numero di certificazioni DOP, IGP ed STG. Scorrendo l’elenco di questi prodotti però salta subito agli occhi un’assenza non facilmente comprensibile, relativa ad un prodotto per il quale la nascita ed il legame con il territorio è documentato da oltre un millennio di storia: la pasta siciliana.

La pasta secca, così come la conosciamo oggi, è nata infatti in Sicilia. Il geografo Arabo El Idrisi ne scrive nell’anno 1100 in uno dei suoi rapporti territoriali prodotti per Re Ruggero II; in particolare racconta come uno stabilimento produttivo vicino Trabia, in provincia di Palermo, produceva pasta a forma di fili (spaghetti) che veniva essiccata al sole e veniva commercializzata poi in tutto il bacino del Mediterraneo. È da allora che abbiamo traccia di come la pasta abbia cominciato a guadagnarsi una dimensione internazionale, grazie al lavoro svolto dai Siciliani, che è poi continuato fino ai giorni nostri.

L’esperienza della cerealicoltura in Sicilia prende origine con l’invenzione dell’agricoltura nella Mezzaluna Fertile, circa 12.000 anni fa. Da quell’area i primi semi di cereali coltivabili si sono diffusi anche nel bacino del Mediterraneo. Sappiamo che il primo grano coltivato dall’uomo in Mesopotamia, il grano Monococco, veniva poi coltivato nell’isola nel neolitico e anche in epoca pre-ellenica. Con i Romani oltre al Monococco in Sicilia veniva coltivato anche il Farro, una specie già simile al grano duro per assetto genetico. Sono stati proprio i Romani a decidere che l’Isola sarebbe divenuta un vero e proprio territorio di produzione di grano su larga scala, con l’obiettivo di generare una condizione di ricchezza e prosperità per l’intero impero.

La Sicilia ha svolto un ruolo importante anche nella cosiddetta “battaglia del grano” di matrice fascista, con l’incessante lavoro di Ugo De Cillis che, in piena rivoluzione verde, collaborava con Nazareno Strampelli, incaricato dal governo fascista di attuare un percorso di miglioramento genetico del grano per far sì che l’Italia si emancipasse dalle dipendenze economiche dell’approvvigionamento estero del grano. De Cillis studiava le varietà locali siciliane, fonte di biodiversità genetica ed esempio di adattamento al territorio siciliano, che continuiamo a coltivare anche ai giorni nostri e che chiamiamo impropriamente “grani antichi”.

Nei mercatini dell’usato e dell’antiquariato è possibile trovare alcune bellissime stampe delle etichette dei pastifici che operavano in quegli anni in Sicilia, con riferimenti al territorio regionale e alla produzione di formati di pasta da destinare anche ai mercati esteri. Ancora nelle teche RAI (ex Istituto Luce) sono presenti filmati che raccontano come fin dagli anni 50 la filiera del grano duro siciliano era considerata “insostituibile” per la produzione di semola e di pasta di qualità.

Insomma la pasta e la sua materia prima, il grano duro, affondano radici profonde nella storia dell’isola e sono elementi che si intrecciano in un unicum ambientale e culturale, che sono il risultato di un complesso susseguirsi di fatti storici e interazione con specifiche condizioni ambientali.

Eppure oggi, intorno al mondo della pasta siciliana, si condensano alcuni paradossi che sono difficili da giustificare, soprattutto alla luce dei valori che l’Unione Europea propone in tema di tutela e riconoscimento delle tradizioni agroalimentari. Il primo, più eclatante, è proprio l’assenza di un riconoscimento DOP o IGP per il prodotto in oggetto, i cui legami con il territorio trovano conferme grazie a numerosi fonti bibliografiche e banche dati.

Decenni di monitoraggio della qualità merceologica realizzati dal Consorzio di Ricerca Gian Pietro Ballatore, hanno dimostrato come il grano duro siciliano abbia un profilo qualitativo peculiare, differente da quello prodotto ad altre latitudini o in altri contesi territoriali (Peso Ettolitrico molto elevato superiore a 82 kg/hl, Indice di Giallo elevato rispetto alla media nazionale, Proteine che difficilmente superano il 13%, umidità della granella al raccolto bassissime ed inferiori al 10%, assenza di micotossine). Altre indagini, in corso di approfondimento, hanno evidenziato come una categoria di composti ad attività antitumorale, i Lignani, sia particolarmente ricca nel grano coltivato in Sicilia rispetto ai valori riportati in letteratura per altri campioni raccolti in altri contesti ambientali.

Il tutto è frutto dell’interazione tra le varietà di grano diffuse localmente in Sicilia, la climatologia regionale, le specifiche tecniche di coltivazione utilizzate nel particolare sistema agricolo regionale, che già il Prof. Gian Pietro Ballatore, dell’Università di Palermo, nei suoi scritti di agronomia mediterranea nel 1960, descriveva come “un susseguirsi ed intrecciarsi disordinato e contorto di sistemi di montagne e di monti isolati, simili ad enormi cavalloni di un mare in tempesta”.

Questo variegato e complesso sistema ambientale è alla base dell’ampia variabilità bioclimatica e della spiccata eterogeneità pedologica che caratterizzano l’ecosistema siciliano; elementi questi capaci di esercitare una pressione selettiva nei confronti dell’adattamento delle varietà locali di grano, che gli agricoltori hanno selezionato e mantenuto nel corso degli anni e che hanno generato la già citata biodiversità genetica delle varietà locali.

Un ulteriore elemento che rafforza il legame con il territorio della filiera siciliana della Pasta è proprio l’utilizzo delle varietà locali (grani antichi), che sono la risposta siciliana agli indirizzi che la UE ha espresso in tema di contenimento dell’erosione genetica e tutela della biodiversità in agricoltura (Dir. 2008/62/CE del 20/06/2008 e Dir 2009/145/CE del 26/11/2009).

Con riferimento ai consumi di pasta la Sicilia ha un primato mondiale che con un consumo medio annuo procapite di circa 40 Kg fa considerare i siciliani i veri “mangiamaccheroni” del pianeta. Questo dato infatti è quasi il doppio di quello registrato per l’Italia che, con una media di 23 kg procapite per anno, si colloca al primo posto al mondo in termini di consumi, seguita dalla Tunisia (17 kg procapite per anno) e dal Venezuela (12 kg procapite per anno). Eppure malgrado questo primato mondiale il mercato della pasta in Sicilia è (altro paradosso) prevalentemente appannaggio dei noti brand di rilievo nazionale, che nella GDO (Grande Distribuzione Organizzata) occupano una maggiore estensione in metri lineari, negli scaffali dedicati alla vendita, rispetto a quella dei pastifici regionali.

Un altro paradosso riguarda ancora la storia recente. La terra che ha “inventato la pasta” vede negli ultimi anni un indebolimento strutturale della filiera cerealicola in conseguenza della progressiva chiusura dei grandi pastifici, ridotti nel corso degli ultimi cinquant’anni da 45 a soli 5 stabilimenti. Questa condizione ha indebolito la capacità della filiera di drenare localmente una parte delle produzioni; oggi, infatti, dei circa 8 milioni di quintali di grano duro prodotto annualmente nell’isola solo la metà riesce ad essere trasformata nel mercato regionale; la restante parte è indirizzata a mercati extraregionali quali la Puglia e il nord Africa. La scomparsa dei grandi pastifici purtroppo non è controbilanciata dal recente fenomeno che vede invece la nascita di numerosi piccoli pastifici artigianali (con essiccazione statica), specializzati nella produzione di produzioni di nicchia. In generale ci vogliono da 50 a 100 piccoli pastifici artigianali per assorbire la stessa capacità di trasformazione di un grande stabilimento industriale; ogni volta che un grande pastificio chiude in Sicilia, si rischia quindi di indebolire ulteriormente la filiera e cancellare un pezzo importante della storia e della cultura del nostro popolo.

Sono questi i percorsi attorno ai quali costruire la proposta per il riconoscimento DOP o IGP per la “Pasta Siciliana”, che non rappresenta solo un tentativo di consolidare l’economia di una delle filiere più importanti per l’agroalimentare della regione, ma esprima il più ampio intento di tutelare la storia e l’insieme dei valori culturali associati al mondo del grano. Perché, come diceva l’imperatore romano Marco Aurelio, “ognuno vale quanto le cose a cui dà importanza”; ed è questo il motivo per cui l’Europa non è soltanto un “territorio economico”, è molto di più.