E in principio fu il chicco ovvero il dono celeste del grano
del prof. Giovanni Mannara

Prof. Giovanni Mannara

L’arte della cucina è gesto religioso. Non sorprenda, pertanto, se il termine greco μάγειρος (màgeiros) indichi, nell’antica Grecia, sia il cuoco che il macellaio che ha il compito di sacrificare l’animale per la cerimonia. Riti sacri per gli dèi olimpici e banchetti umani, dunque, sono scenario di una collettività che nel cibo ritrovava se stessa. Sull’Olimpo giungevano, densi e pastosi, i fumi dei sacrifici che, levandosi dagli altari, si mescolavano al nettare e all’ambrosia di cui gli dèi si nutrivano mentre, sulla terra, gli eroi banchettavano con carni arrostite su spiedi dalla punta acuminata bevendo vino. Dèi e dee, inoltre, erano immoti numi tutelari dei cibi e delle rituali occasioni sociali. Sopra tutti, equivalente della Cerere romana, stava Dèmetra, definita da Omero χρυσαόρου ἀγλαοκάρπου (chriusaòru aglaocgàrpu) ovvero «dalla spada d’oro, Signora delle stagioni»: è colei che veglia sul Mediterraneo agricolo condensato nel grano. E così da Creta e da Eleusi fino alla Sicilia, il frumento diviene sacro e a Trittolemo, reso immortale dalla divinità, viene affidato il compito di insegnare alla generazione degli uomini la sua coltivazione. Quel chicco, gravido di vita, diverrà così compagno dell’uomo nel suo percorso di civilizzazione e progresso, segnando il passaggio dal nomadismo alla stanzialità. Entità totemica, fascinatrice ed iconica, per cui a buon diritto Frazer ha potuto parlare di «spirito del grano» come cifra panica ed indelebile della mediterraneità (J. Frazer, Il ramo d’oro, Roma, Newton Compton Editori, 2009, pag. 123).
Rappresentativo, a tal merito, è il vaso scoperto nella città protosumera di Uruk (odierna Warka), in Mesopotamia, e databile al IV millennio a.C. In alabastro, decorato da fasce orizzontali in rilievo, presenta nel registro inferiore increspature d’acqua da cui fuoriescono canne e germogli di grano che diventano sostegno per l’intero creato che si sviluppa in assetto verticale. Una visione narrativa ed artistica dal respiro cosmico che, dall’empirico sensibile, risale fino alla teofanica manifestazione regale.

Si legge, inoltre, nell’Iliade (XIII, 322) come Omero, per indicare il consesso degli uomini civili, usi proprio l’espressione «mangiatori di grano». Ad avvalorare tale ipotesi di civiltà si ricordi la figura del mitico ciclope Polifemo che, vive appartato, non lavora né il legno né i metalli ma soprattutto «non somigliava / ad un uomo che mangia pane, ma alla cime selvosa / di altissimi monti, che appare isolata dalle altre» (Omero, Odissea, IX, vv. 190-192). Per essere definiti uomini, allora, ci si deve nutrire di quel macinato della dea dalle chiome bionde come il frumento maturo. Demetra stessa, peraltro, avrebbe inventato il mulino e l’aratro. La prima descrizione di una scena agricola la si ritrova nel libro XVIII dell’Iliade a proposito dello scintillante scudo di Achille, forgiato per lui dal dio Efesto. Un raffinato momento di ekphrasis che, interrompendo di fatto la narrazione, apre uno squarcio su quel mondo bucolico dove la terra nera diventa d’oro per i suoi frutti. Si legge: «[…] i mietitori / mietevano; /[…] il grano in parte sul solco cadeva fitto per terra, / […] dei giovani, portando le spighe a bracciate, / le davano continuamente. Il re […] / tenendo lo scettro, stava sul solco, allegro in cuore» (Omero, Iliade, XVIII, vv 550-560). Tra le molteplici testimonianze artistiche, fittili e statuarie, più prossime geograficamente a noi e di maggiore fascino estetico, ci si conceda qui la segnalazione degli Acroliti di Demetra e della figlia Kore, databili intorno al 530 a.C., esposti al museo di Aidone in provincia di Enna. Assise ed immobili, come nell’antico ναός (naòs) di un tempio, avvolte da un’aura senza tempo, le dee attendono i visitatori che le ringraziano, ancora oggi, per il dono celeste della spiga.

Dal grano al pane. E poi alla pasta, il passo, anzi il piatto, è “breve”. Nel 1154, il geografo arabo Edrisi faceva menzione di un cibo di farina in forma di fili, la “triyah” preparata a Trabia (l’attuale Palermo). E da lì, la pasta diventa cibo vitale per le masse. Peraltro, è assai significativo che anche il poeta Esiodo, per indicare la spiga, usi la parola βίος (bìos) che, in modo molto più immediato, significa “vita”.

Prof. Giovanni Mannara

Docente di Lettere, Italianista, Storico dell’Arte, predilige la letteratura classica e barocca.

Virtuoso esteta con spirito dannunziano.

Signore di altri tempi, con la sua raffinatezza ed eleganza ci fa apprezzare e gustare la storia, la cultura e l’arte.